Sono all’inizio dello studio delle tragedie greche e mi ritrovo davanti una serie di ragionamenti e di relazioni col presente e con la concezione che abbiamo di questa forma artistica. A volte argomenti di questo genere mi coinvolgono a tal punto da farmi elaborare delle mie idee personali, com’è successo in questo caso. Procedo dunque nell’elencarle, diciamolo così, un po’ in modo aleatorio e forse … prolisso?
Iniziamo così.
Secondo Walter Nestle, filologo classico tedesco, “la tragedia nasce quando si comincia a guardare il mito con gli occhi del cittadino“. Per quanto le prime tragedie trattassero di temi epici, la polis a quel tempo era coinvolta totalmente, anima e corpo, in quelle rappresentazioni teatrali. Oggi, in un’era che – diciamocelo – il teatro lo vede un po’ con una certa distanza, facciamo quasi fatica ad immaginare centinaia di persone intente a vedere riprodotti in scena i problemi e le idee della propria città (strano anche a dirsi!) assistendo alla concretizzazione del dolore, il pathos, inspiegabile tappa dell’esistenza umana. La sofferenza è difatti un particolare aspetto elaborato per secoli di filosofia dalla mentalità greca come inevitabile, a volte totalmente ingiusto. Tale concetto – va riconosciuto -, per la tradizione ebraico-cristiana è del tutto estraneo. Eppure la grandezza delle tragedie antiche risiede proprio nella loro capacità di far riflettere sui casi della vita, giostrati dal Fato, burattinaio contro il quale neppure gli déi potevano nulla. Ma la limitatezza dell’uomo è l’elemento più pesante che gli eroi tragici devono trainare sulle spalle: eppure lo fanno con prontezza e determinazione e contrariamente a quanto potremmo pensare oggi, l’eroe tragico non si perde d’animo, anzi, è tale proprio perché va incontro a questo Fato, cosciente di non poter fare altrimenti, libero ed elevato proprio per il suo coraggio. Ma difronte a ciò, dando una descrizione simile della tragedia, com’è possibile che non possiamo attribuirle un pessimismo invalicabile? Il punto e l’esemplarità della tragedia greca stanno proprio in ciò, nel non diventare mai cupa disperazione.
catarsi
Se vogliamo seguire il pensiero dei grandi filosofi greci, Platone ed Aristotele prima di tutti, gli artisti non sono altro che ”imitatori”, riprendendo il concetto di mimesis. La tragedia, come altre forme d’arte, altro non sarebbe che imitazione della realtà, o meglio, la vera e propria creazione di un mondo fantastico, surreale e al tempo stesso paradossalmente reale. Lo spettatore è incantato da questo mondo, e l’artista, alla stregua di una divinità, dal nulla crea l’arte. “La tragedia“, diceva Aristotele, “attraverso la pietà e il terrore produce la purificazione da simili emozioni“. E la capacità comunicativa che innesca la catarsi è propria di queste rappresentazioni che oggi dovremmo prendere un po’ più in considerazione, noi, che sempre più di rado ci ritroviamo ad avere i brividi a teatro o al cinema, sempre per mano di artisti così abili da mimare la realtà non solo impeccabilmente, ma anche andando oltre di essa. Vi sarà capitato sicuramente di essere coinvolti in prima persona da un film, per esempio, e al termine di questo essere percossi da una sorta di scarica; per questo affermo, ora, con certezza, che solo allora siete entrati in contatto con l’arte. La vera arte. Parlo di film per attualizzare il concetto che, naturalmente, si potrebbe (anzi, dovrebbe) estendere a qualunque forma di espressione. E questo lo dobbiamo alla tragedia greca prima di tutto, patrimonio inestimabile che – insisto – dobbiamo portare ancor di più in primo piano. E ringraziamoli, i Greci. E scusiamoci quando diciamo che ormai il greco antico è una lingua morta.