Ci stiamo trasferendo

Sì.

we are moving

Ma è un pluralis maiestatis, perché a trasferirmi son solo io. Mi sento un’incurabile opportunista a cercarti, mio non-diario virtuale, solo quando sento movimenti d’animo così incontenibili da volerli estendere in questa maniera.

In questa enorme ragnatela.

Ché a contenerli fatico.

Divaghiamo oltre: ora, che significa che ci stiamo trasferendo?

Ne ho avuti di traslochi e spostamenti vari nella mia vita. Uno più traumatico dell’altro. Roma, Avellino, Napoli. E a Napoli da una casa all’altra. E di nuovo il pendolo tra Avellino e Napoli. E la mattina da una sede universitaria all’altra. E sali, e scendi. E l’ascensore di casa, e quello della metro. E persone che ti passano affianco per tre secondi – il tempo di camminare, lentamente, paralleli, il tempo di non incrociarsi -, per qualche mese – il tempo di conoscersi, di non capirsi, di tornare a non conoscersi -, per qualche anno.

Ed inizi a sentirti sballottolato.

Ne parlerò meglio, ma mi guarderei bene dal prometterlo. Qua sopra ho raggiunto la capienza massima di promesse non mantenute. Non rimane che caricarle su una memoria esterna.

Ci stiamo trasferendo.

Nel senso che l’articolo conclusivo qua sopra è questo. Mi sposto. Ancora non so dove. Aspetto il vento.

Guardo le statistiche del blog.

(Può esser mai che nonostante la sua quiescenza ci siano ancora lettori giornalieri?)

Mi sembra di lasciare piccoli messaggi nelle bottiglie.

Ci stiamo trasferendo.

Immaginate questa carta un po’ ingiallita coi bordi bruciacchiati. Arrotolata.

Sigillata con la ceralacca.

La ceralacca: un raffinato spettro rosso.

Metto in bottiglia.

Vediamo dove lo portano le onde.

Nati

Non odio il Capodanno,

ma Gramsci sì. Ah! Nel senso: no, non odio nemmeno Gramsci. Ma Gramsci odiava il Capodanno.

Io, ripeto, non odio il Capodanno. Certo è che non lo vivo più con la trepidazione mista a dispiacere e gioia di quando ero bambina. Dispiacere perché mi era stata presentata quest’immagine de “l’anno vecchio che si butta nel Tevere”, e che non sarebbe più tornato. Quanto mi dispiaceva per l’anno vecchio!

Ma non poteva coesistere con l’anno nuovo? No? Perché escludersi a vicenda?

Ma lasciavo perdere i pensieri filosofici che già cercavano di “corrompere” la mente ancora vincolata dai suoi anni da bambina, ed ecco la gioia. Il clima di festa. I compiti che potevano aspettare: avevo ancora una settimana di vacanza dalla scuola.E chi l’avrebbe detto che proprio dai compiti, sì, chiamiamoli così, avrei trovato il sollievo al dispiacere per l’anno vecchio che si buttava nel Tevere. Alla fine non era un cambiamento così drastico come voleva apparire.

E via sta necessità dei propositi. C’è sul serio qualcuno che se li fa? Mi son sempre risparmiata di fissarmi dei propositi. Me la sarei presa così come sarebbe venuta.

Il sollievo, dicevo. Il sollievo di realizzare e di avere il coraggio di dire una volta per tutte che i cambiamenti non avvengono così drasticamente, tanto nel nostro piccolo quanto nel macroscopico. La storia altro non è che composta da noi come noi siam tanti aggregati di elementi via via più piccoli.

Mi sto dedicando allo studio della storia moderna, in questo periodo, che mi fa tanto penare ma… che passione, vi giuro.

Ma ora Gramsci.

“…

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.

E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

…”

firmato Natalia del 2019

Sergio Premoli, Gramsci

…ho un déjà vu,

 

Mi sono già vista calare sentimenti su fogli, fogli di carta, fogli elettronici, note. Mi sono già vista pubblicarli, mi sono già vista cancellarli, conservarli, rileggerli, riviverli o negarli.
Mi sono già vista scrivere qui, mi son vista tanto tempo lontana – la mia mente via, ancora più distante -, mi son vista a ripensarci, rielaborare ricordi vecchi piuttosto che crearne di nuovi.
Mi son vista, io ipocrita, criticare l’ipocrisia, mi son vista paranoica, mi son vista così diffidente nei confronti degli altri che son diventata diffidente anche con me stessa. Mi son vista e sentita ripetitiva, poi ho realizzato che alle volte sono le anafore a rendere bella una poesia.

Mi vedo qui, di nuovo. In fondo non sono andata da nessuna parte – e continuo a vedermi uguale a sempre solo perché credevo fosse passato tanto e invece avevo solo chiuso un attimo le palpebre.

Ah!, ciao. 

Parlavo tra me e me.
Da quanto tempo mi stavate ascoltando? 
Mi sembra di aver già vissuto anche questa lieve, morbida, forma d’imbarazzo.

 

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nat 

Colonna di cenere

si trova come sospeso
nel vortice 

di una colonna di cenere

piccoli rombi bianchi, 

coriandoli di polvere.

io

sono di nuovo 

qui 


​​​​​​

sisma 

per poco il cor non si spaura

trovo con affanno la maniglia della porta, la luce è andata via
è ancora tutto buio, posso giurare di sentire sotto ogni mio passo la terra cedere e rinvenire come in uno svenimento infinito 

ho paura a scendere le scale, mi blocco, e si blocca anche la terra  

è passato tutto l’inferno coi suoi diavoli qui sotto, altro non mi spiego 

un secondo dopo, sovrumani silenzi 

La Tortue Rouge 

Produzione franco-nipponica  di freschissima uscita nelle sale giapponesi, già dal trailer comunica una grandissima innovazione per lo studio Ghibli, che – bisogna dire un po’ ingiustamente – era dato per chiuso, in particolar maniera dopo il ritiro del grande maestro Miyazaki.

Ne «la tartaruga rossa» ci aspettiamo un grande viaggio onirico un po’ “into the wild” e un po’ “Robinson Crusoe” di un uomo su un isola sperduta, ci aspettiamo tanta natura, una componente di magia e pochissimi dialoghi. Ci aspettiamo soprattutto poesia, che alle produzioni dello Studio Ghibli non è mai mancata.

In questo caso alla regia c’è Michaël Dudok de Wit, olandese, che può già vantare cortomeraggi tra i quali, per esempio, Father and Daughter (vincitore di un BAFTA e di un Academy Award) e lo sperimentale The Aroma of Tea.

Sensibilità orientale e occidentale si fonderanno graficamente e acusticamente con un risultato delicato ed ammaliante.

qui il trailer giapponese.

 

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stormi d’uccelli neri com’esuli pensieri

Guardavo stormi disegnare figure nel cielo.

Mi incantavo per minuti interi.
Il cielo autunnale al tramonto mi invitava ad andare da lui con le sue trasformazioni e con le coreografie che gli uccelli migratori intraprendevano lungo di esso. Non so spiegare perché nella mia mente vi siano come delle fotografie di vari momenti della mia vita — qualcosa di più di semplici ricordi. Quando sfoglio questo album mi sembra di vedere il film più bello che si possa mai girare.

E vedo me da bambina che, ancora con le ginocchiere da pallavolo, torno a casa e passo come da rito davanti l’edicola non molto distante da casa, quella accanto al fioraio. E vedo le ultime uscite di tutte le figurine che desideravo ma che non chiedevo perché volevo fare quella grande, quella che di figurine non ha bisogno, quella che già legge i libri che fanno leggere alle scuole medie. E poi nell’aria sento l’odore di fiori appena annaffiati, bellissimo e pungente.
Ma la cosa più bella che vedo è il volo di tutti quegli uccelli e la musica che disegnano, perché si tratta di musica, di violini, viole e violoncelli, di strumenti a fiato che seguono le indicazioni di un maestro d’orchestra elegantissimo ed invisibile.

 

Charlie Hebdo oggi.

Oltrepassato il confine della satira si sfocia nel black humor, in qualcosa che non ci è nuovo, ma che accende gli animi solo nel momento in cui ci si sente chiamati in causa. 

Questo non è umorismo, dal momento che non fa ridere. Attenzione, però: non è stato neppure concepito per far ridere. La satira si prefigge, dall’alba dei suoi tempi, di far aprire gli occhi. 
L’indignazione ci sta e la vignetta appare, così, lampante esempio di pessimo gusto. Ma accalcati tutti a criticare /questo/ non ci si accorge del messaggio di fondo, – consegnato con mezzi discutibili, certo – ma tristemente vero. Vale a dire: le istituzioni che permettono, qua in Italia, scenari del genere, a loro volta non ci sono nuove

Morale? inutile aizzarsi contro vignettisti e fumettisti. 

Fatene pure di tutta l’erba un fascio, inneggiate alla satira – casualmente sugli altri – che più reputate consona. 

Rimane comunque un fatto importante. Il vignettista era cosciente di quanto sarebbe avvenuto in seguito alla sua pubblicazione. Il vignettista per lavoro e inclinazione conosce le conseguenze di un “tratto di penna più calcato”. L’intento era quello di metterci davanti un’italianità un po’ troppo stereotipata, sì, ma che ancora una volta, tra TV, governo e sotterfugi vari non ha impedito una simile tragedia.
#JeSuisCharlie e mi spiace che – mentre sui social si fa guerriglia -alla luce dei fatti persone sono morte. Persone vere, non su carta. E il cordoglio rischia di passare in secondo piano alla rabbia.
rimando, in più, ad un articolo che sicuramente meglio di me ha espresso la mia posizione in merito 

http://www.wired.it/attualita/2016/09/02/charlie-hebdo-terremoto-se-non-vi-fa-indignare-non-satira/

Un recente cameo di Tarantino 

non sogno spesso

o meglio, dire che non ricordo i sogni che faccio sarebbe più corretto. 

Ad ogni modo, oggi, dopo pranzo, mi addormento e passano le ore. Tre ore, per la precisione: dalle tre e mezza alle sei e mezza. Un letargo fuori stagione, il mio. 

Succede che – rigorosamente in prima persona, come tutti i sogni che faccio – attendo con ansia a casa l’arrivo di un ospite tutto speciale. E lo attendo con un cappello da cow-boy gigante in testa, rosso bordeaux, sobrio. Molto sobrio, roba con cui ci si può tranquillamente presentare in ufficio per una rigorosissima giornata lavorativa. 

E finalmente arriva Quentin, l’amichetto mio. Sì, il buon Tarantino, che accolgo assieme alla mia famiglia e alcuni ‘colleghi’  di recitazione elaborati a misura nel mio sogno. In poche parole dovevo girare un film con lui, cose di tutti i giorni, direttamente a casa mia. Mi ritrovavo anche il copione tra le mani, pronto, appena uscito dalla fotocopiatrice. Una trama niente male, devo solo unire i puntini e ricordarmela meglio – chissà, potrebbe ritornarmi utile. 
E si cenava tutti assieme, Quentin compreso, in una bella tavolata all’italiana. Ma solo dopo averlo omaggiato col mio cappello western. “So che queste cose ti piacciono”, farfuglio come se fosse un mio amico di vecchia data. E lui cortesemente ringrazia. Rido al solo pensiero. Tanto di cappello – a proposito di cappelli – al primo che mi interpreta il sogno.

Sol y soledad. 🌅⛵️🌞🇨🇺

« Bentornata a Cuba », le sue parole mi ricordarono la canzone dei Negrita, Hemingway. Giugno ha placato i miei nervi? No, decisamente no. Il sole picchiava forte sulla mia pelle, dorandola di un rosa scuro. « Sfoga la tua rabbia » sentivo odore di sigaro nell’aria. Era molto forte, invasivo, impregnava i miei vestiti leggeri. La maglia bianca larghissima copriva più del dovuto i pantaloncini di jeans. « …nella rabbia dell’oceano. » Sedevo sui gradini di un palazzo e con lo sguardo seguivo il perimetro di quelle case tutte colorate che avevo davanti, sotto una fittissima ragnatela di fili elettrici. Il cielo terso, c’avrei giurato, era diverso da quello di altri posti che avevo visto. Il cielo di Cuba è tutto particolare. Non vedevo l’ora che si colorasse dei colori del tramonto, di Piña Colada e di passeggiate sulla spiaggia.

n.m.