Noi, i taciturni.

Noi, i taciturni che non c’hanno sempre cose da raccontare al mondo. I gufi che bubulano due parole, le penne a sfera che scrivono un po’ e poi si scaricano. 
Faccio rotolare giù dalla collina fiumi di parole, un torrente in piena che d’improvviso s’arresta. E nella fretta non mi rendo conto che non so più che dire, arrossisco e mi copro di silenzio. Aspetto di tornare al centro dell’attenzione. Se proprio è necessario.
  
n.m.

Cose che postiamo.

A song to say goodbye,

A song to say goodbye ,

A song to say…



«Abbassa il volume»

«No»

«Basta co ‘sti Placebo, è da stamattina che mi stai stonando» 

«Non li ascoltare allora» 

Carlotta fulmina il fratello con lo sguardo, giusto il tempo per poi posarlo nuovamente sullo schermo del cellulare. E scorre, scorre le pagine a vuoto. Che nervi che è Facebook quando ti accorgi che la gente posta solo stronzate. 

Before our innocence was lost,

You were always one of those,

Blessed with lucky sevens,

And the voice that made me cry.



«Ancora che pensi a quello?»

«Ancora che fai domande?»

«Mi rispondi se prometto che non ti faccio più domande?»

«Vediamo.»

«Allora?»

«A quello chi?»

«Quel coglione» 

«No»

«Davvero?»

«Avevi detto niente più domande»

«Ma tu continui ad ascoltare i Placebo, sto cercando di studiare di là»

«Stai cercando di peggiorarmi la giornata, ecco cosa»
«Sei una stupida, Carlò»

«Che insulto pesante»

Lo sguardo di lei incollato allo schermo, l’orgoglio incollato a lei. Probabilmente se alzasse lo sguardo finirebbe con il sorridere imbarazzata e abbozzare un’espressione inebetita e malinconica. 

«Comunque devi smetterla, dai, di pensare a lui»

«Come fai a dirlo con tutta questa certezza che ci penso ancora?» 

«Vediamo. Placebo, irritante comportamento da adolescente delusa in amore e soprattutto post su Facebook molto molto illuminanti.» 

Nave affondata.

E sì, è proprio vero che su Facebook postiamo solo stronzate.

Parola d’ordine: nutrire l’avvoltoio! 

e lasciami perdere
che non ne posso più
che più sfigati siamo
e più si pippa di gusto
yummy yummy
questa mattina
ho avuto un colloquio di lavoro
questa bella avvenente signora mi chiede quali siano le mie aspirazioni
aspirazioni
trovare un lavoro, oppure un altro
fare un mucchio di soldi da non poterli contare
o fare tanto sesso da potersi stancare
girare per le strade come fossi al centro del mondo
guidare un’automobile che la gente si volta a guardare
insomma
vorrei
farli
morire
d’invidia
d’invidia tutti quanti
l’invidia del resto, lo dicono i sociologi, è il sentimento più diffuso
e tanto vale darci dentro!
vai, dai, vai che sei solo
uno su mille ce la fa
e stai a vedere
che questa volta tocca a te
se tuo fratello resta al palo
mandalo affanculo!
non aver pietà o rispetto per nessuno
parola d’ordine: nutrire l’avvoltoio!

Questa è una buona parte del testo di Disinteressati e Indifferenti, canzone de Il Teatro degli Orrori. Ultimamente l’ascolto spesso, io, che un po’ ne traggo anche una sorta di motivazione, così sbagliata e giusta allo stesso tempo. Contraddittoria, cattiva, egoista e terribilmente reale. Ventunesimo secolo alimentato a invidia. 

E non si stacca mai la spina.
  

  

L’eco di una tragedia.

Deve sempre emergere il lato peggiore dell’umanità in queste tragedie. E no, non mi riferisco solo agli attentatori e a chi c’è dietro questa follia ma anche a chi senza informazione alcuna inizia a sentenziare, arguto, coi suoi 140 caratteri massimo, senza dover necessariamente stare su Twitter. E si sentenzia sempre tanto e a sproposito. Tutta la sensibilità che si proclama la percepisco sempre di meno. E malauguratamente le occasioni in cui essere sensibili si presentano, ancora. 

Parlo, è vero, contro la generale ipocrisia che paradossalmente (ma nemmeno un tanto) si è venuta a creare a tragedia compiuta, quando ormai non rimaneva altro che il silenzio – o meglio, quello soltanto doveva rimanere. Probabilmente il rispetto di una testa china a pregare per un minuto sarebbe valso mille parole, ma spese per cosa? 

Piangere sul latte versato, accusare ed autoaccusarsi, senza riconoscere che è già un disegno spaventosamente e meticolosamente articolato. Noi dovremmo, ecco cosa, trovarne le trame e correggerlo per evitare che anche un piccolo puntino bianco venga macchiato di nero, di rosso o di qualunque altro colore. 

pregare per Parigi deve voler dire meditare su quello a cui l’umanità sta andando incontro. E rimbocchiamoci una buona volta le mani se ai nostri figli vogliamo dare modo di non tremare nel sonno.
Natalia Musto

Quando una persona devia lo sguardo.

Da una breve riflessione qui sul blog ero arrivata a ragionare su cosa vuol dire quando una persona devia lo sguardo senza riuscire a sostenere il confronto visivo. Mi piace molto la psicologia ma non al punto tale da poter dire di intendermene. Ciononostante mi addentro un po’ in un aspetto che potrebbe essere definito di natura psicologica. Un aspetto molto deduttivo, è vero, ma anche molto interessante. A mio parere merita di essere affrontato. 
Dunque, poniamo una situazione tipo.

Tu rivolgi la parola ad una persona, guardandola negli occhi. Intrattieni un discorso con questa, ma quasi subito dopo aver iniziato a scambiare le prime frasi ti rendi conto che da parte sua c’è una certa agitazione, un nervosismo che leggi, appunto, nel suo sguardo. Questa persona tende infatti a cambiare il punto in cui guarda, come se volesse evitare che tu invada il suo “piccolo”. Mi sembra naturale a questo punto fare due tipi di ragionamento diversi a seconda di che persona ci si para difronte. Questo pensiero può farci anche capire meglio, in effetti, di chi si può trattare.
Io lo vedo come una sorta di difesa, per esempio, il tentativo di deviare lo sguardo. La persona che non ti guarda negli occhi quando ti parla può essere una persona timida, con la personalità più bella del mondo, che vuole tenere quanto di più bello ha tutto per sé o per pochi eletti, quei fortunati che ti diranno sempre « fidati, appena ti conosce meglio ti dà anche l’anima. »

O magari nasconde, ben altro che la timidezza, non una personalità, ma un’ipocrisia che impedisce uno scambio di stima e che fa mettere sulle difensive. Brutta cosa la falsità, stavo notando in questi giorni. E la dobbiam fronteggiare sempre, piccoli Orlando-furiosi, che pure davanti  alla verità vogliamo dare una spiegazione solo nostra.

lavatrice-pensieri 

Sono una persona che ci tiene molto ad essere ascoltata. Mi piace quando gli altri chiedono il mio parere riguardo una cosa, quando sentono ogni mia parola, mi sorridono e poi dicono la loro. 

Il punto è che la mia sensibilità in questo gioca brutti scherzi. Capita che mi sento come trasparente, a volte. Una sensazione spiacevole, sentirsi fuori luogo, che senza dubbio abbiamo provato un po’ tutti nella vita. Ma nel mio caso c’è di più. Non essere ascoltata mi porta ad ascoltarmi da sola. Mi spiego: pongo quanta più attenzione su me stessa cercando di saziare la necessità di comprensione, finendo con il conoscere ogni volta un lato nuovo di me. Ha dell’assurdo, questo discorso, e lo so. Ma anche scrivendo cose del genere – scrivendo, infatti, mi libero – è come se mi sfogassi in un certo qual modo, il che mi solleva non poco. Amo scrivere ogni cosa che mi passa per la testa, forse non c’è cosa che in questo periodo mi aiuti di più. E soprattutto pensare di essere letta da altri mi rincuora, mi ravviva, ché da sola in una stanza i pensieri possono solo circolare come in una lavatrice.
Buona serata a tutti, 

Nat 

“Da quanto tempo!”

Oggi ho portato alla luce il simbolo della mia infanzia da uno scatolone in soffitta. Lo considero un emblema ispezionandolo come se fosse la prima volta in cui lo vedo, facendolo girare tra le mie mani. Ne avevo tanti, di peluche, e forse ad alcuni di essi ero anche più affezionata di quanto non lo fossi per questo. Ma questo Pikachu rappresenta qualcosa di più, al di là dell’attaccamento materiale per un pupazzo. Rappresenta forse la mia più grande passione ludica dell’infanzia, i Pokémon, e con tutta la tenerezza del mondo mi ricordo di quando “piccola così” – immaginate stia indicando un’altezza pari ad un metro e qualcosa da terra – guardavo i cartoni, collezionavo le carte e soprattutto giocavo ai videogiochi. Mi ritrovo oggi che sono cresciuta e non me ne sono nemmeno resa conto. Così inganno il tempo e posiziono Pikachu sul comodino accanto al mio letto.